Teatro del Legame

presenta

CRISTO GITANO

regia di Daniele Lamuraglia

“Frammenti da Cristo Gitano”
di Antonio Tabucchi

La leggenda di un Cristo zingaro crocifisso due volte circola nella penisola iberica da secoli, probabilmente dagli albori del ‘500, quando il popolo zingaro dopo la sua misteriosa fuga dall’India (altri vorrebbero dall’Egitto, da cui gipsy, gitano) arrivò in Andalusia. Come altri miti e leggende essa è entrata nella letteratura iberica diffondendosi perfino in America Latina. Ma se ne sono fatti interpreti anche scrittori di altre letterature fra cui ad esempio William Sharp che in parte ha dato ispirazione al testo che sarà presentato al Teatro di Rifredi.

Daniele Lamuraglia, attingendo al mito di base, lo ha saputo rianimare con i propri occhi, nella chiave moderna che esso merita, affinché questo popolo, da sempre osteggiato e perseguitato, che ha pagato un prezzo altissimo all’occidente (si pensi al milione di zingari sterminati nei campi nazisti) – ma che nella sua disperata vitalità si rifiuta di soccombere alle malvagità della Storia – sia per noi un monito straordinario della minaccia che incombe sulle minoranze etniche più indifese della società di oggi.

Presentazione a Cristo Gitano di Daniele Lamuraglia

L’Idea

È il terreno dell’estraneità, della differenza, di ciò che ci è oscuro, di ciò che non ci accomuna, che continua ad interessare il teatro e la letteratura, e a dar loro un senso di necessità, tra i molti e potenti mezzi di comunicazione che oggi investono le nostre conoscenze, e che sempre più spesso le annullano nella ripetizione del già visto.

L’incontro fortunato con Antonio Tabucchi, che ha dato vita a questo progetto del Cristo Gitano , parte da questi presupposti. Quando un’idea, una cultura, un’esistenza, non è quasi più difesa da nessuno, ma attaccata da molti lati, nasconde quasi certamente qualcosa d’interessante. È il segno di alcuni grandi personaggi teatrali, o letterari (Macbeth per fare un nome), e dell’attenzione che vi hanno dedicato grandi autori. Non casuale, appunto.

L’idea che ci ha uniti, è stata quella di abbandonare il campo delle opinioni e delle polemiche che girano intorno al popolo Rom, e di fare qualcosa che avesse un lucido e ragionato carattere propositivo. Si è quindi pensato di mettere in gioco le proprie capacità artistiche, ed unirsi ad un gruppo di rom che volesse recepirle, metterle a frutto. Si è pensato di dare voce a qualche voce rom, con gli strumenti che, in maniera diversa, possediamo. Ognuno ha fatto il suo percorso, più o meno antico, articolato ed approfondito, di letture e ricerche, sulla cultura rom. Nessuno dei due si reputa un esperto. Ma penso anche che non sia necessario essere esperti per unirsi alle persone: è importante mettersi all’ascolto, condividere un’esperienza, dialogare. Di questa “strategia”, sono debitore anche di Alessandro Santoro, prete scomodo che lavora a fianco dei dimenticati della città, tra i quali i rom appunto. Si è unito al progetto con attenta, puntigliosa, e totale disponibilità. Ci passa costantemente la sua esperienza, ci consiglia, mette a disposizione le sue conoscenze teologiche su questo argomento centrale della religiosità occidentale.

Il lavoro di laboratorio è lungo, difficile, soprattutto per le condizioni in cui si trovano a vivere queste persone. Ma è anche sempre ricco delle soddisfazioni che può regalare il confronto con una cultura differente dalla nostra, e da delle persone così vitali e piene di inventiva come i nostri amici rom.

Cerchiamo insieme di raggiungere quell’obbiettivo che ci eravamo posti all’inizio con Tabucchi: mettere a disposizione le nostre capacità, per far riscoprire ai rom quell’attività artistica che possedevano essi stessi per tradizione – il teatro -, affinché abbiano uno strumento qualificato in più, per poter parlare, avere voce. Lo pensiamo come l’inizio di un’esperienza che possa proseguire e migliorare nei prossimi anni.

Il dono è stato reciproco: noi ci siamo avvicinati, ed abbiamo iniziato a scoprire un’altra cultura, radicalmente alternativa a quella nostra, che da qualche tempo mostra così tanti segni di decadimento, da aver necessità di aprirsi a nuove prospettive, e ad una in particolare: porsi il profondo dubbio della diversità, riflettersi per una volta nello specchio che rimanda l’immagine dell’Altro da sé.

Lo Spettacolo

Dietro il suo grande tavolo pieno di appunti, Antonio Tabucchi si accende una nuova sigaretta, e alza lo sguardo verso il soffitto, che pare trasformarsi nello schermo bianco sul quale s’illumina chissà che variegato immaginario. – “Esiste una leggenda di un Cristo Gitano…”

Spegne il proiettore, torna con gli occhi a terra, mi suggerisce una serie di piste da percorrere, alcuni indirizzi da contattare. Comincia la ricerca.

Avevo cominciato col seguire la pista più evidente, che era quella delle città spagnole, in particolare dell’Andalusia, nelle quali un giorno della Settimana Santa viene portato in processione dalla propria comunità, la statua del Cristo Gitano.

Ma non riuscivo a trovare una “storia” precisa legata a questa presenza: sembra semplicemente la versione etnica (in questo caso zingara) del nostro Cristo.

Lo scrittore scozzese William Sharp, conosciuto poi con lo pseudonimo femminile di Fiona Macleod, aveva scritto proprio Il Cristo Gitano . Egli nacque nel 1855, viaggiò molto, e venne a morire in Sicilia nel 1905. La prima edizione di The Gypsy Christ and Other Tales , fu pubblicata nel 1895. Il racconto è molto bello, con influenze gotiche e simboliste, richiama lo stile dei pre-raffaelliti.

La vicenda è costruita sulla voce narrante del protagonista, che conosce un nobile inglese, e va a trovarlo nel suo castello. La trama si dipana come in un giallo alla Edgar Allan Poe. Lentamente si scopre che questo nobile è l’ultimo di una antica famiglia che è condannata a produrre periodicamente (ogni tre generazioni) un Cristo Gitano. La condanna è relativa al fatto che questa famiglia ha come capostipite un personaggio femminile presente il giorno del Calvario di Cristo: Kundry. Questa Kundry, già zingara (provocatoria tesi dopo le recenti attribuzioni della loro origine nell’India del 1100), al momento del passaggio di Cristo lo irrise, con parole che designano la mentalità zingara. Cristo la punì ad essere la genitrice di una stirpe che avrebbe partorito ciclicamente una figura di Cristo Gitano, il quale ogni volta avrebbe avuto il terribile destino di essere sempre crocifisso proprio dalla sua comunità di zingari.

Questa Kundry è presente solo nel Parsifal di Wagner, il quale lo ha tratto da un romanzo medievale del germanico Wolfram, intitolato allo stesso famoso cavaliere.

Se col nome di Kundry è presente solo in queste rare (ma importanti) occasioni, ho riscontrato la presenza ancor oggi della figura della Zingara nel rito-spettacolo della Processione, in un paese della nostra Basilicata, Barile, dove s’installarono comunità greco-albanesi a partire dal XV secolo, e che risente ancora di forme religiose della chiesa ortodossa. Questa zingara sarà colei che fornirà i chiodi per la crocifissione: una leggenda che circola sui rom in generale anche in altri contesti.

Ho confrontato queste storie con gli amici rom, ed hanno subito riconosciuto alcuni tratti di fondo a loro familiari. La nostra storia tuttavia voleva essere ambientata nel nostro presente. E così, nel nostro spettacolo vedremo un gruppo di rom di oggi, che è stato chiamato a rappresentare per una festa, la Via Crucis. È un gioco di specchi, perché la vicenda riecheggia ciò che realmente è loro accaduto con il nostro progetto. Vi abbiamo aggiunto il lato onirico e mitologico. Il Cristo Gitano, portatore di una paradossale esperienza profondamente terrena – contro il nostro Gesù cattolico – sembra prefigurare e prospettare un mondo sacro fondato su degli antichi valori pre-cristiani, quasi pagani, nei quali ciò che costituisce il senso è l’azione e non l’ideale, la materia, e non lo spirito. Ma nella sua parabola che lo condurrà alla Croce, il Destino – come anche forse in Cristo – prende il sopravvento su tutto e tutti, mostrando come nel senso ultimo del sacro – nel dono di sé – si possa riscoprire grazie all’antica ritualità, il significato primitivo ed essenziale del cristianesimo, come di ogni autentica religione, e soprattutto di ogni spiritualità: sempre più necessaria in un mondo che rischia di soffocare nell’unica alternanza di razionalità e irrazionalità.