Teatro del Legame

presenta

SCRITTURE MURATE

adattamento e regia Daniele Lamuraglia
con Caterina Fusi, Rosaclelia Ganzerli,Elena Martongelli
disegno luci Paolo Magni
suoni Alessandro Lamuraglia
aiuto regia Laura Lippi
e la preziosa collaborazione di Elisabetta Paoletti Perini e Camilla Tosi

Scritture murate

 

Presentazione

Prima: Firenze, Piazza Madonna della Neve-Ex Carcere delle Murate, 2008

Ci dicono che le prigioni sono sovrappopolate.
Ma se fosse il popolo ad essere superimprigionato?

Michel Foucault

Tre autori classici raccontano il carcere come la metafora di una reclusione collettiva nella brutalità etica ed estetica di una intera società: è lo spettacolo dell’aristocrazia dello spirito che finisce nel supplizio della volgare ignoranza.

Tre donne elegantemente borghesi, tra un biscottino ed un thé, tra delicate musiche al pianoforte, descrivono crudi e violenti racconti dal carcere, senza rendersi conto che la spensierata e raffinata frivolezza che sgocciola dalla loro cultura, verrà innalzata a sistema capillarmente totalitario da una futura – e nostra contemporanea – biopolitica del potere.

Tre racconti di Dostoevskij, Wilde, Kafka, che fanno emergere una comune chiave di lettura che illumina la tragica parabola storica che culmina nella nostra attuale epoca: il carcere non è più il luogo ove scontare il gesto riprovevole rispetto ai valori comunitari, ma diviene lo spazio fisico dove riclassificare gli individui secondo un nuovo ordine che metterà in luce le nuove funzioni che la società richiede. Il carcere non è dunque che la cellula di un gigantesco meccanismo sociale che ridispone i suoi modelli di comportamento non più in base a valori morali, ma in rapporto a prestazioni utili a quell’anonimo ed automatico meccanismo globale che è divenuta l’intera società.

Gli spazi emblematici dell’ex carcere delle Murate sono oggi in parte aperti ed in parte in ristrutturazione, secondo un progetto architettonico che ha saputo valorizzare nello stesso tempo le radici storiche del complesso e l’aspirazione alla libertà creativa e alla dimensione sociale che può scaturire da quell’antica istituzione, in funzione di una vita abitativa e comunitaria che sappia vivificare la memoria collettiva per trasformare l’isolamento ormai tipico della nostra società, in un nuova rete di possibili rapporti umani.

Tra quei segni di passate reclusioni, tra quelle pietre di crudeli suddivisioni, vorremmo far riecheggiare tre monumentali esperienze di scrittura fiorite realmente e simbolicamente nel carcere: Dostoevskij, Wilde, Kafka. Tre scritture murate ma vive, eternamente in fuga, sempre in bilico tra l’oblìo e l’omaggio, di tre giganti della letteratura che hanno vissuto in maniera diretta l’inferno delle prigioni e il senso profondo dell’esclusione esistenziale, che ci consegnano la grazia di tre grandi racconti simbolici della condizione umana.

Fedor Dostoevskij scrive nel 1861 Memorie di una casa di morti, dopo essere stato arrestato per attività politica, ed essere condotto fino al patibolo, per poi ricevere all’ultimo istante l’avviso di grazia (che poi descriverà in una breve pagina de L’Idiota). I reclusi, ma anche i loro carcerieri, sono descritti facendo emergere la loro nascosta umanità e i loro sentimenti più profondi, aprendo così a Dostoevskij quella via che lo porterà nei romanzi più conosciuti ad affrontare il tema della tragica relazione fra la vita e la morte.

Oscar Wilde scrive nel 1898 La ballata del carcere di Reading, dopo essere stato imputato di gross indecency (“grave immoralità”, termine usato per indicare l’omosessualità, che era illegale). Il processo si concluse con la condanna di Wilde a due anni di lavori forzati, la bancarotta, e la rovina definitiva della sua carriera. Con questa ballata, scritta in forma poetica, riesce a descrivere l’avvicinamento al supplizio di un condannato come la metafora del rapporto con la morte dell’intera umanità, componendo così una delle sue opere più alte, anche se meno conosciute.

Franz Kafka scrive nel 1919 Nella colonia penale, un racconto che preannuncia quell’epoca per lui futura ma per noi contemporanea, nella quale la macchina della Giustizia e della Pena, il “sistema procedurale” oltrepassa la coscienza dell’umanità, e si erge in demonica solitudine a dettare la stessa obbedienza assurda ed anonima alle vittime ed ai carnefici, accomunati da un’identico meccanico destino.

Mettere in scena la modernità con Dostoevskij, Wilde, Kafka

Il teatro può compiere molte operazioni e svolgere molte funzioni. Quello che ci interessa come compagnia è scandagliare il presente, coglierlo nei suoi punti caldi, scoprire quei fuochi d’energia che ne tracciano il cammino futuro, al di là del bene e del male.

Spesso ci dedichiamo alla scrittura del testo, ma se a volte scegliamo un autore del passato è sempre un classico, poiché sappiamo il potere che detiene.

Un autore classico è in grado di illuminarci per almeno due dei suoi caratteri.

In primo luogo perché è un’universo di linguaggio di altissima caratura, e grazie alla sua frequentazione e conoscenza diveniamo comproprietari di una facoltà di visione del reale preziosissima.

In secondo luogo perché con il raffinato strumento del loro linguaggio riescono ad intravedere ed isolare i primi movimenti di quei fenomeni che esplodono nelle epoche successive.

Di Dostoevskij, Wilde, Kafka, abbiamo scelto di prendere quelle opere che aprono uno squarcio sul tema della colpa, della pena, della reclusione, dell’isolamento: Memorie di una casa morta, La ballata del carcere di Reading, Nella colonia penale.

L’insieme di queste tre opere consente di ridisegnare una parabola che rappresenta la radicale trasformazione che ha compiuto la nostra società su questo tema cruciale fino ad arrivare ai nostri giorni, e che peraltro coincide con la straordinaria analisi compiuta da Michel Foucault in Sorvegliare e punire.

Si è passati da un’idea di pena – e quindi di colpa morale – che si manifestava fino al XVII secolo con il crudo spettacolo pubblico dei supplizi dove la potenza del sovrano esprimeva la sua forza fisica sul corpo del condannato, ad una gestione ed amministrazione della reclusione a partire dal XVIII secolo, che organizza la violazione della legge passando dall’infrazione al crimine secondo degli scarti classificati nei loro dettagli psicofisici, in funzione di un supercontrollo di massa nel quale il carcere non è che il modello di una serie articolata di strutture di potere che si richiamano le une alle altre senza consentire alcuno spazio di non-visibilità esterno ad esse.

Con Dostoevskij penetriamo dentro l’universo carcerario, e l’operazione che ci illustra con la sua sottile sensibilità, è quella di mostrarci la ferrea classificazione degli individui, la disposizione degli orari e delle attività, il controllo sui corpi e sui sentimenti.

Con Wilde alla classificazione si aggiunge la costante sorveglianza dei Custodi su ognuno dei condannati. E nello stesso tempo s’innalza come l’ultimo grido – l’ultimo battito d’ali – della cultura classica e della bellezza, contro la volgarità, la brutalità e la morte, annunciati dal nuovo sistema. In quest’opera del carcere, sono presenti molti dei riferimenti che egli aveva da poco fatto esplodere nella Salomé, scritta pochi anni prima, e destinata a divenire il richiamo per ogni artista che voglia interrogarsi sul legame tra sacro e profano, tra desiderio e fascinazione, fra legge e trasgressione, fra omologazione sociale e creatività artistica.

Con Kafka il sistema si trasforma definitivamente in quel macchinario anonimo che non distingue più tra vittima e carnefice, che iscrive i suoi comandamenti al di là del loro contenuto, poiché la sua funzione ed il suo scopo si esauriscono nell’atto di incidere sui corpi la replicabilità infinita di un meccanismo senza uscite.

Tutti e tre gli autori, in questi testi meno noti, portano infine alla luce un altro tema, che probabilmente si trova ad un livello ancora più profondo di quello della morale e della colpa: si tratta del rapporto dialettico e conflittuale ad un tempo, tra la Nobiltà ed il Popolo. Una Nobiltà da intendere come spirito, come legame fecondo fra tradizione e innovazione, come patrimonio di conoscenze da tramandare per costruire il futuro, come potenzialità della creazione umana ed artistica contro la massificazione oggettuale della comunità, la quale si fonda su ogni abbassamento del linguaggio, e quindi dei desideri, per esprimere solo la riproducibilità di una mera sopravvivenza guidata dai consumi indotti e preconfezionati.

A partire da questi stimoli, il periodo delle prove e della costruzione della messa in scena, come sempre servirà a scavare sempre più a fondo i testi, e così rinvenire quelle pietre preziose che sono eternamente in grado di far brillare lo sguardo sul presente, ed indicarci il cammino futuro.